Il "padre" italiano dell'informatica delle parole

Roberto_busaLo conoscete?

Se potete leggere questo articolo, digitato sulla tastiera di un computer, lo si deve innanzitutto a lui. Se possiamo comporre e scomporre i testi, effettuare analisi e ricerche con un paio di clic su un mouse, se comunichiamo sempre più attraverso messaggi virtuali, lo dobbiamo soprattutto a lui.

Padre Roberto Busa, pioniere dell’uso dell’informatica nella linguistica (oggi nota col nome di Linguistica Computazionale), anticipatore dell’ipertesto attivo sul Web con tre lustri d’anticipo rispetto agli scienziati americani è morto quest’estate, a 98 anni.

La linguistica computazionale studia i formalismi descrittivi del funzionamento del linguaggio naturale, in modo da trasformarli in programmi eseguibili dai computer, cioè cerca una mediazione fra il mutevole linguaggio umano e le rigida capacità di comprensione del computer.

Il computer era nato come una macchina per fare calcoli. Nell’immediato dopoguerra questo intraprendente gesuita stava lavorando a un’opera titanica, voleva analizzare l’enorme opera di san Tommaso. Aveva faticosamente compilato, a mano, diecimila schede, tutte dedicate all’inventario della preposizione «in», che riteneva fondamentale dal punto di vista filosofico. Padre Busa aveva un cruccio: desiderava connettere tra di loro espressioni, frasi, citazioni e confrontarle con altre fonti disponibili.

Per questo nel 1949 (!) bussò alla porta di Thomas Watson, il fondatore dell’IBM, che lo ricevette nel suo studio newyorkese, rimase ad ascoltarlo, e alla fine gli disse: «Non è possibile far eseguire alle macchine quello che mi sta chiedendo. Lei pretende d’essere più americano di noi». Il gesuita non si diede per vinto e mise sotto il naso del boss dell’IBM un cartellino che portava stampigliato il motto della multinazionale, coniato proprio da Watson: «Il difficile lo facciamo subito, l’impossibile richiede un po’ più di tempo». Busa lo ridiede al fondatore dell’IBM non nascondendo tutta la sua delusione. Watson si sentì provocato e così cambiò idea: «Va bene, padre, ci proveremo. Ma a una condizione: mi prometta che lei non cambierà IBM, acronimo di International business machines, in International Busa machines».

Dall’incontro di queste due menti creative nacque l’ipertesto, quell’insieme strutturato di informazioni unite fra loro da collegamenti dinamici consultabili sul computer con un colpo di mouse. La parola hypertext sarebbe stata coniata da Ted Nelson nel 1965, per progettare un software in grado di memorizzare i percorsi compiuti da un lettore. Ma, come è stato documentato da Antonio Zoppetti, esperto di linguistica e informatica, chi «davvero operò sull’ipertesto, con almeno quindici anni d’anticipo su Nelson, fu proprio padre Busa».

Grande cultore delle lingue, era in grado di discutere delle sue scoperte in latino, greco, ebraico, francese, inglese, spagnolo, tedesco. «Mi sono dovuto arrangiare con i rotoli di Qumrân – raccontava – che sono scritti in ebraico, aramaico e nabateo, con tutto il Corano in arabo, col cirillico, col finnico, col boemo, col giorgiano, con l’albanese».

Padre Busa era rimasto sempre un sacerdote. E le ricerche che svolgeva sui software lo confermavano nella fede: «Una mente che sappia scrivere programmi – amava ricordare – è certamente intelligente. Ma una mente che sappia scrivere programmi i quali ne scrivano altri si situa a un livello superiore di intelligenza. Il cosmo non è che un gigantesco computer. Il Programmatore ne è anche l’autore e il produttore. Noi Dio lo chiamiamo Mistero perché nei circuiti dell’affaccendarsi quotidiano non riusciamo a incontrarlo. Ma i Vangeli ci assicurano che duemila anni fa scese dal cielo».

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